Avico et al. (2020) descrivono bene la condizione del personale sanitario nel periodo che stiamo attraversando e di come l’emergenza determinata dalla pandemia di SARS-Cov2 (Severe Acute Respiratory Sindrome-Corona Virus 2), nella sua eccezionale complessità, stia creando situazioni di fondamentale importanza che richiedono attente riflessioni.
La pandemia SARS-Cov2 ci presenta in tutta la sua dirompente potenza: tutto quello che abbiamo detto fino ad ora si applica in maniera piuttosto semplice se l’evento potenzialmente traumatico è singolo e puntiforme (come accade per un incidente stradale), oppure se è possibile prendersi una pausa di osservazione dalle situazioni di stress continuativo in corso, riuscendo a valutare con un minimo di chiarezza e competenza i sintomi in corso, su se stessi o sulle persone che ci chiedono un parere o una consulenza in quanto sanitari. La pandemia di SARS-Cov2 è tutt’altro che puntiforme e singola: ci stiamo convivendo e ne siamo esposti ormai da mesi.
Le équipes sanitarie si trovano in una doppia situazione: da una parte con l’obiettivo di mantenere le metodologie e le prassi operative necessarie per affrontare la patologia ancora in corso, dall’altra di ripristinare una quotidianità clinica e un lavoro di équipe conosciuto e messo in atto da anni legato a un ritorno alla “normalità”.
Si vive una quotidianità stra-ordinaria e sospesa nella quale, sia nella dimensione lavorativa che nella dimensione personale, pare siano venuti meno i rituali di elaborazione e le occasioni di condivisione e rispecchiamento con gli altri.
Sono saltati i protocolli di comunicazione delle cattive-notizie in presenza, è saltata la possibilità di mantenere la posizione di semplice testimone discreto del soggetto che accompagna la dipartita del proprio congiunto ed infine è saltata la possibilità di “chiudere il cerchio” con la consegna degli effetti personali. Alcuni operatori si sono trovati su due piedi a decidere di accompagnare la dipartita di un paziente, non concedendosi poi di metabolizzare l’accaduto, anzi, imponendosi di continuare nel proprio efficiente operato.
Ci si trova in presenza di corpi assolutamente allarmati e “protetti” in termini di attenzione selettiva ai segni del contagio, ma all’interno di dinamiche relazionali altamente detonanti in termini psico-emotivi, proprio per questa impossibilità di lasciar scorrere la nota ritualità inter-soggettiva.
Viene negata l’immediatezza di un abbraccio, del porgere un fazzoletto o un bicchiere d’acqua.
La dimensione etimologicamente e fenomenologicamente collettiva della compassione e del commiato paiono essere fagocitate dalla dimensione patologica del timore del contagio. Ritmo di riposo e lavoro, possibilità di sintonizzarsi con il prossimo vengono a mancare. La persona deve districarsi essendo a corto di risorse personali e relazionali in un orizzonte temporale incerto, con possibilità decisionali limitate e all’interno di un contesto spaziale ridotto e potenzialmente “contaminante”.
In riferimento agli effetti psicosociali sul personale sanitario, come già evidenziato nella review di Lancet (Wang et al. 2020), anche le ricerche condotte in Cina mostrano come la salute mentale dello staff medico sia esposta a rischi più pesanti e persistenti nel tempo. Gli effetti psicosociali della quarantena nel personale sanitario toccano non solo la sfera personale, ma investono anche quella lavorativa. Si assiste in molti operatori sanitari a un deterioramento delle performance lavorative, comportamenti di evitamento riluttanza a svolgere ancora il proprio lavoro e considerazione di dimissioni.
Un nuovo e interessante effetto viene riportato dall’Ospedale di Nanjing, che ha effettuato una comparazione tra infermieri in prima linea (a stretto contatto con pazienti contagiati da Covid 19) e infermieri e volontari non in prima linea (coinvolti nell’emergenza ma non a stretto contatto con pazienti Covid). La rilevanza dello studio (Li et al. 2020) sta nell’aver posto l’attenzione, tra le varie conseguenze psicosociali della pandemia, alla traumatizzazione vicaria. Il dato rilevante emerso dallo studio nell’Ospedale di Nanjing, è che il personale non direttamente coinvolto in prima linea, ha registrato sintomi stress correlati più alti rispetto a coloro che operavano in prima linea, e nello specifico, livelli maggiori di traumatizzazione vicaria (Li et al. 2020).
Lo studio ha coinvolto 214 volontari provenienti dalla popolazione generale e 526 infermieri (di cui 234 in prima linea e 292 non in prima linea), per un totale di 740 individui. È emerso che gli infermieri in prima linea registravano punteggi di traumatizzazione vicaria più bassi rispetto agli infermieri non direttamente coinvolti. Non si sono registrate differenze significative, invece, all’interno della categoria “non in prima linea” tra infermieri e volontari coinvolti.
Le ragioni di una tale evidenza possono essere ricondotte a due ragioni: in primis, il fatto che gli infermieri in prima linea si sono candidati volontariamente al ruolo con una preparazione psicologica adeguata. Inoltre il livello di esperienza e di pratica del personale in prima linea era altamente qualificato e pertinente, provenendo per la maggior parte da reparti di terapia intensiva e medicina interna. Questi elementi hanno probabilmente svolto da fattori di protezione in uno sviluppo più severo di traumatizzazione vicaria. Ciò è dimostrato anche dal fatto che, negli infermieri in prima linea, il trauma vicario derivava dall’empatizzare con i pazienti Covid di cui si occupavano, mentre gli infermieri non in prima linea e volontari, estendevano la loro preoccupazione anche ai colleghi in prima linea.
Orrù et al. (2021) hanno pubblicato, sul “Journal of Environmental Research and Public Health”, uno studio condotto attraverso un questionario on line che ha coinvolto un campione di 184 operatori sanitari provenienti da 43 paesi e 5 continenti diversi tra il 1 maggio ed il 15 giugno 2020. Lo studio pubblicato è stato condotto all’Università di Pisa dal prof. Angelo Gemignani insieme al dott. Ciro Conversano alla dott.ssa Graziella Orrù con la collaborazione dell’Auxilium Vitae Rehabilitation e la Fondazione Volterra Ricerche ONLUS.
L’indagine ha raccolto informazioni riguardanti i dati sociodemografici e l’esperienza personale e professionale durante la diffusione dell’epidemia Covid-19; sono stati presi in considerazione la gestione della pandemia dal punto di vista organizzativo ospedaliero, il livello di emergenza percepito, la percezione dello stress, la presenza di sintomi tipici del disturbo da stress traumatico secondario (STS), il burnout e, infine, il grado di resilienza ed autoefficacia.
La pandemia ha provocato nel 40% del personale sanitario reazioni acute di stress tanto più aggravate dalla vicinanza e dal tempo trascorso con i pazienti e le loro famiglie. Le donne hanno mostrato effetti maggiori rispetto agli uomini (47,3% contro 34,4%). I livelli di stress appaiono particolarmente critici negli operatori sanitari in prima linea (47,5%) e negli operatori sanitari esposti alla morte di pazienti infetti (67,1%).
Fattori protettivi significativi, come la resilienza o l’autoefficacia, non sono stati trovati. Considerando questi risultati, ipotizziamo ragionevolmente che l’alto livello osservato di STS sia coerente con l’epidemia effettiva e pertanto dovrebbero essere considerate le sue potenziali conseguenze a lungo termine.
Già l’esperienza dalla sindrome respiratoria acuta grave del 2003 (SARS) e le prime segnalazioni relative a COVID-19 avevano dimostrano che gli operatori sanitari sperimentano ansia, stress e paura (Lai et al. 2019, Styra et al. 2008); così come i pazienti sopravvissuti possono manifestare ansia, depressione, stress, e disturbo da stress post-traumatico (Wu et al. 2005a, Wu et al. 2005b).
I professionisti sanitari che non si prendono cura direttamente dei pazienti con COVID-19 non sono immuni agli effetti psicologici e possono avere traumi vicari a livelli simili al pubblico in generale; è stato ipotizzato che ciò possa riguardare le loro preoccupazioni per i pazienti con la malattia, il rischio dei loro colleghi, per se stessi e le proprie famiglie (Li et al. 2020).
Gli operatori sanitari possono sperimentare disagio psicologico dal fornire assistenza diretta ai pazienti con COVID-19, sapere qualcuno che ha contratto o è morto a causa della malattia o dell’essere necessario sottoporsi a quarantena o isolamento (Lai et al. 2019, Brooks et al. 2020).
Una rapida revisione delle prove esistenti ha rilevato che gli operatori sanitari che si isolano da soli o in quarantena segnalano sintomi di PTSD, depressione, stigmatizzazione e paura di perdita finanziaria (Brooks et al. 2020).
“L’esposizione diretta al dolore dei pazienti, alla loro sofferenza psicologica e morte ha significativamente contribuito allo sviluppo in medici e infermieri di una reazione acuta assimilabile al disordine da stress post-traumatico con un quadro clinico che generalmente comprende umore negativo, sintomi dissociativi e alterazioni della reattività” spiega in una nota Ciro Conversano dell’Ateneo pisano (Intervista rilasciata a Quotidiano Sanità, 20/03/2021).
La mancata garanzia di un supporto adeguato potrebbe comportare una sottostima dei sintomi e aumentare il rischio di permanenza in ospedale da parte di coloro che lavorano con i malati (Wu et al. 2020). Gli operatori addestrati all’emergenza spesso non si concedono nemmeno la possibilità di poter avvertire questa fatica, derubricandola come “ordinaria” all’interno della propria professione (Avico et al 2020).
Una forte rete di supporto sociale può compensare i sentimenti di isolamento (Brooks et al. 2020): le videochiamate e le riunioni virtuali consentono il mantenimento di relazioni sociali preservando le distanze fisiche, limitare l’isolamento alla durata più breve necessaria ed enfatizzare che l’altruismo e il mettersi al servizio del bene superiore sono valori fondamentali della professione.
Tutti questi interventi possono ridurre l’effetto della quarantena o isolamento e aiutano a preservare il benessere e la forma fisica dei lavoratori nell’assistenza sanitaria in modo che possano tornare al lavoro quando possibile (Wu et al. 2020).
Supportare gli operatori sanitari in tutti gli aspetti è vitale. Prendersi cura di noi stessi è vitale in modo che possiamo continuare a prenderci cura degli altri (Wu et al. 2020).
Tuttavia, ci sono stati pochi studi sugli effetti fisici e psicologici di focolai di gravi malattie infettive sul personale medico, in particolare se associato a un aumento del carico di lavoro e stress associato al rischio di infezione (Xiao et al. 2020). Sebbene si stiano compiendo enormi sforzi per indagare la fisiopatologia, gli esiti clinici e il trattamento della malattia da Coronavirus 2019 (COVID-19), gli effetti di questa pandemia sulla salute psicologica degli operatori sanitari non possono essere trascurati (Wu et al. 2020).